Biografia

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MarilynMonroe

Domenico Pirisi, per tutti Mimmo, nasce a Roma nel ’40. Di famiglia sardo-continentale, ancora bambino dimostra uno spiccato talento per il disegno. Con i suggerimenti dello zio Carlo scopre la magia dei colori ad olio e comincia a realizzare alcuni piccoli dipinti copiando nature morte e teste di animali da cartoline illustrate, ricevendo nuovi colori e pennelli ad ogni opera realizzata. Terminata la scuola secondaria la mamma vorrebbe indirizzarlo a studi di ragioneria, ma Mimmo scopre per puro caso l’esistenza dell’istituto d’arte “museo artistico industriale”, aggregato al prestigioso Istituto Industriale “Galileo Galilei”, di Via Conte Verde a Roma.

Immediatamente prima della iscrizione all’istituto, nel corso di una breve vacanza in un piccolo albergo di montagna, il titolare, amico dello zio Carlo, gli commissiona la progettazione di un semplice depliant, con la promessa di un compenso in denaro.

“Folgorato sulla via di Damasco”, a poco più di tredici anni poter guadagnare denaro è per quasi tutti utopia, scatta in Mimmo la convinzione che le possibilità di guadagno più immediate sono legate alla “reclame” e si iscrive alla sezione “Cartello”, che all’epoca identificava le sezioni dell’istituto dedicate alla pubblicità.

Evidentemente la classe non è acqua e, prima di terminare gli studi, a 17 anni, è assunto come grafico presso lo studio di progettazione di una importante industria stampa Romana, dove resta fino alla partenza per il servizio militare, scoprendo ed approfondendo tutto quello che il mondo della stampa consente per la riproduzione d’immagini.

Inizia da qui a sperimentare, in camera oscura, l’elaborazione di immagini fotografiche. In particolare, la scomposizione tonale di foto in bianco e nero a tinta continua, ottenendo, dallo stesso soggetto, immagini grafiche d’intensità diversa e progressiva.

Dopo il congedo approda nel mondo dell’editoria prima e in quello della pubblicità poi.

Alcuni anni presso un’agenzia di pubblicità romana, nasce il primo figlio ed iniziano varie collaborazioni da professionista indipendente.

Progettare per immagini resta il suo modo di procedere, matite, pennarelli, tempere ed aerografo sono i suoi strumenti di comunicazione.

Riprende anche la sperimentazione sulla scomposizione tonale, ma questa volta aggiungendo il “colore” ai soggetti scomposti. Nel 1975 nasce il secondo figlio e inizia una seconda avventura; dà vita, con un amico/cliente alla GPP, agenzia di pubblicità.

A fianco dell’amico-socio, esperto di marketing (Revlon, Ford Italia, Juvena), apprende le “leggi” del marketing, che negli anni ’70 in Italia, per la quasi totalità delle imprese sono ancora un mistero.

Il modo di progettare, da quel momento, non può più prescindere dal marketing. Ogni tanto riemerge la voglia di “dipingere”, ma l’attività lavorativa non lascia spazio.

Domenico Pirisi si cimenta anche con il design industriale, una bottiglia per un liquore al caffè, uno spazzolino da denti, diversi elettroemanatori (per pasticche insetticida), contenitori vari.

Nel 1989 compaiono in agenzia i primi computer capaci di sostituire il modo tradizionale di progettare ed eseguire “grafica”.

Nonostante la lentezza, le limitazioni ed il “costo” dei nuovi strumenti, comincia la terza avventura; dopo un inizio distaccato e lasciando ai giovani collaboratori l’incombenza di impadronirsi del loro uso, per fatti contingenti inizia l’incontro scontro.

Il computer diventa lo “strumento” di disegno e di progettazione.

Un lavoro che sempre va spiegato, un lavoro che troppo spesso viene confuso con automatismi elettronici, un lavoro che non è certo generato da semplificazioni elettroniche.

Stavolta non si tratta di scelte di vita, i figli sono grandi, non sembra stiano per nascerne di nuovi, l’avventura della pittura digitale è stimolante e Domenico Pirisi riprende a comporre anche opere che nulla hanno a che fare con lo strumento tecnologico, se non il fatto di utilizzare una matita o pennello elettronici al posto di quelli tradizionali, con la finalità di realizzare opere “uniche” ma ripetibili e variabili.

Gli schemi di partenza sembrano buoni, lo starter ha dato il via, la convinzione di proporsi in modo positivo e alternativo al mercato è forte, e l’artista non ha intenzione di fermarsi troppo presto.

Arte, fare arte, tecnologia e arte, la rete…

A questo punto, scritte e descritte vita ed opere, in considerazione del fatto che Domenico Pirisi non si presenta quale nuovo esemplare della fauna artistica italiana ed internazionale, ma come artista che si propone di mettere in discussione la gestione mercantile dell’arte, vale la pena di leggere alcune sue riflessioni su questo argomento, tenendo presente che mettere in discussione va inteso soprattutto nel senso di cercare spunti ed aiuti per una tentata razionalizzazione di un sistema che sembrerebbe aver ormai inglobato tutto e tutti.

In una spirale che sempre più sembra una bolla fatta ad arte (Il Mondo – agosto 2006), con valutazioni iperboliche di opere anche discutibili, che nel solo anno passato hanno superato in asta i 4 miliardi di dollari, e guarda caso, anche l’arte moderna ha avuto i suoi picchi, ma tutti di autori stranieri, che di italiani emergenti c’è poca cosa e di certo con quotazioni assai lontane dai rivali stranieri, la responsabilità di questa mancata valorizzazione viene attribuita ai nostri galleristi, troppo frammentati e privi di una vera strategia commerciale!

Dunque riflessioni e indicazioni, dialettica e proposte, accettazioni e rigetto, non sono che elementi di una ormai lunga frequentazione argomentale sulle problematiche del sistema arte e del mercato ad esso collegato.

Problematiche ampie, profonde, domande infinite alle quali dover rispondere, elementi di analisi, accumulati in anni, da dover riversare giustamente miscelati in pochi spazi cartacei.

Lo scoglio che si è immediatamente presentato è se tentare una sorta di lunga intervista, o se cercare di attraversare un sentiero di definizioni e stilemi, cercando ed usando supporti e giustificativi adatti.

La seconda ipotesi sembra essere quella vincente anche se Domenico Pirisi non ha potuto sottrarsi a qualche domanda diretta.

La prima non può che essere provocatoria, e rispecchia la curiosità di molti: il primo impatto visivo riporta immediatamente ai ritratti che hanno dato la fama ad Andy Warhol, origine e ispirazione o solo imitazione?

Tutto nasce dalla realizzazione dei primi ritratti. Alcuni scatti fotografici da me effettuati per poi proseguire utilizzando le fonti più disparate: foto di amici, stampa periodica, internet, disegni appositamente realizzati, quadri famosi. Nel caso del Leonardo, non potendo ovviamente disporre di foto o di un ritratto ho provveduto prima a ricostruire il ritratto partendo dal più noto autoritratto del genio, per proseguire poi a realizzare il clone base nel mio stile e con la tecnica da me preferiti. Il fatto poi che io abbia deciso e scelto di fare ritratti di icone del nostro tempo, stessa scelta di Warhol, sinceramente mi sembra sia una forzatura considerarla imitazione.

Certo è che i ritratti che hanno reso celebre Warhol al grande pubblico, in particolare quello della Marilyn Monroe realizzato subito dopo la morte (agosto 1962) dell’attrice, sono il materiale che ha contribuito in maniera determinante alla notorietà della sua produzione artistica. La cosa veramente comune è invece il tentativo di rendere le opere originali moltiplicabili.

Il sistema scelto da Warhol per questo scopo è stata la stampa serigrafica, artigianale.

La mia scelta, visti i progressi tecnologici intervenuti, è invece il computer.

In quanto poi a tecnica stilistica, siamo agli antipodi: Warhol prendeva una foto, ne ricavava una matrice serigrafica estremamente contrastata e la stampava in nero su una superficie precedentemente colorata manualmente o serigraficamente in alcune sue parti; produceva in questo modo più stampe serigrafiche e sostituendo la base colorata otteneva opere diverse;

per quanto mi riguarda e per quanto attiene alla mia tecnica di lavoro, premesso che i miei primi esperimenti di scomposizione tonale (tecnica più che nota nel mondo grafico) risalgono alla fine degli anni ’50, e che, nel bene e nel male, li ho considerati solo dei giochi grafici, la mia personalizzazione artistica è frutto di una sapiente miscela di manualità e strumento tecnologico.

Solo più tardi, scoprendo i ritratti di Warhol, mi sono reso conto di aver allora sottovalutato in modo colpevole la forza e l’impatto visivo che i ritratti realizzati in quel modo potevano avere come nuovo linguaggio artistico.

Ma, come lo stesso artista americano, avevo già intrapreso la carriera di grafico pubblicitario. Questa è l’altra cosa che ho in comune con Warhol.

Per tornare alla mia tecnica, forse un esempio è la cosa migliore per capire.

Prendiamo il caso del cerchio perfetto: eseguirlo a mano è impossibile (certamente anche quello del grande Giotto non era matematicamente preciso); con l’ausilio di un compasso è facile, ma occorre un minimo di manualità; con un programma grafico informatico è di una banalità disarmante.

Qui nasce l’equivoco:

se per disegnare è sufficiente un computer, per creare la Divina Commedia basta una macchina da scrivere.

Credo sia superfluo qualsiasi commento.

Vediamo ora in concreto la sola parte realizzativa, tralasciando i contenuti di un’opera.

Dobbiamo tornare alla scomposizione tonale, ed anche qui l’evoluzione della tecnologia mi ha permesso, dopo i primi esperimenti in bianco e nero,di passare al colore, semplicemente, esponendo in successione i vari livelli ottenuti, con l’ausilio di appositi filtri, su carta fotografica a colori.

Procedimento eccessivamente lungo, costoso e incerto.

Siamo ai primi anni ’70, le variabili troppe per garantire un risultato esattamente uguale a quello voluto.

Smetto e riprendo i pennelli, ma il lavoro e la famiglia non consentono grandi spazi.

Rinuncio fino alla comparsa dei primi programmi informatici di grafica e di manipolazione d’immagini.

A questo punto, superati anche i cinquanta, l’incontro / scontro con la tecnologia mi fa ritrovare voglia e spazio per riprendere possesso di alcuni dei sogni sepolti nel cassetto.

La scomposizione tonale, da argomento lungo e complesso diventa veloce e banale, e per me rappresenta il punto di partenza per una creatività libera da impedimenti temporali, divenendo in sostanza il materiale base per approdare a nuovi lidi artistici.

In particolare attraverso la ricerca e l’individuazione delle aree omogenee atte a conservare l’identità del soggetto, sfruttando le caratteristiche tecnologiche integrate dalla ricostruzione manuale e dalle scelte cromatiche gestite per raggiungere l’effetto voluto.

Vuol forse dire che la disponibilità di tecnologia sta rivoluzionando il modo di fare arte?

Vuol forse dire che le decennali diatribe tra originali e copie sono state superate?

Vuol forse dire che il mercato fa marcia indietro?

Vuol forse dire che non parleremo più di copyright?

Vuol forse dire che stiamo tornando, con la possibile nuova grande diffusione dell’arte pittorica, a quando per comunicare ci si poteva servire solo delle immagini?

Calma, tutto insieme è complicato.

Andiamo con ordine.

Prima di tutto vorrei esprimere il mio punto di vista sul come fare arte, limitandomi al campo per me più congeniale “l’arte visuale”; fare arte significa produrre qualcosa quantomeno unico ed originale.

Per far comprendere meglio il mio pensiero su l’arte visiva è necessario fare un confronto con un altro campo artistico: la musica.

Un pezzo musicale è tale se vissuto dal vivo, si apprezza anche nella sua versione registrata, ma, manca il momento magico del contatto con l’autore.

Sentirlo via radio, o duplicato, è come guardare una stampa che riproduca la “Gioconda”, ben diverso è recarsi al Louvre e fermarsi davanti all’originale.

Viene a mancare quella percezione che ci viene trasmessa dalla certezza del rapporto e contatto diretto tra autore ed opera.

Ciò nonostante, la tecnologia ha reso indistinguibile l’esecuzione dal vivo con quella riprodotta, assegnando così alla riproduzione lo stesso valore dell’esecuzione diretta.

Non a caso ho sentito la necessità di certificare la mia produzione, controllandone la rispondenza, la qualità, la codifica univoca e la firma.

Per fare arte è necessario rendere possibile un incontro ravvicinato con l’opera e possibilmente l’autore.

Ancora un esempio per rafforzare questa mia convinzione.

Una preparazione gastronomica, qualcosa che percepiamo coinvolgendo più sensi, e, non ultima la vista, può essere arte se risponde alle caratteristiche prima esposte, ma, anche in questo caso, solo la realizzazione diretta del suo autore e solo nel momento della sua prima creazione, la può collocare al giusto livello, altrimenti è un multiplo e neanche dei meglio riusciti.

Per cui fare pittura oggi va visto come la rinascita di un mondo artistico che aveva perso, soprattutto nell’ultimo secolo, la sua vera essenza di bene universale, trasmesso da chi aveva maggiore sensibilità e capacità ad un volgo appiattito.

Dai primi segni tracciati sulla roccia alle rappresentazioni più complesse e famose, tutti hanno conservato quel qualcosa di magico, di unico che ne hanno fatto un’opera d’arte, riconosciuta dalla società umana come tale per via del fatto che non a tutti era dato di poter godere delle conoscenze intellettuali e capacità manuali tali.

I modi, gli strumenti, i materiali e gli accorgimenti per produrre meglio e di più, dalle botteghe d’arte con molteplici garzoni, al reticolo attraverso il quale rilevare il soggetto del dipinto per facilitarne la ricostruzione, alla camera “obscura” utilizzata dal Canaletto e successivamente alla camera chiara e al proiettore.

L’artista ha modificato nel tempo il modo di fare arte, senza che questo abbia modificato il suo approccio intellettuale.

Basterebbe dare una scorsa al lavoro di David Hocnkney, che ci conferma come sin dal sedicesimo secolo erano largamente utilizzati artifici ottici per generare correttamente le dimensioni e le caratteristiche dei soggetti e degli ambienti ritratti.

Finiti i tempi dei grandi e potenti committenti, l’artista ha poi cambiato i soggetti delle sue opere ed in parte ha cambiato anche il modo di produrle.

l limite, che qualsiasi artista ha sempre avuto, è stato quello di non poter produrre le proprie opere in più esemplari ed in prima persona, esattamente uguali ed originali.

In qualche modo ha ovviato al limite producendo multipli: xilografie, litografie, serigrafie e altro, in 100, 200 e più copie numerate e firmate dall’autore.

Metodologia esclusivamente commerciale, per vendere ed acquistare un’opera originale, ad un costo contenuto.

In un multiplo pur avendo la firma autografa dell’autore, il suo valore venale è determinato, oltre che ovviamente dalla capacità e notorietà dell’autore stesso, soprattutto dalla preordinata rarefazione del numero dei soggetti.

Con l’avvento della fotografia, in un primo momento relegata a puro fatto tecnico e di mera riproduzione di un soggetto, si sono perse voglia e necessità di produrre ritratti.

A conferma però che l’opera d’arte non può essere relegata ai modi, ai materiali ed alla manualità dell’autore, anche la fotografia acquista dignità artistica per il semplice fatto che rappresenta il momento creativo con cui l’autore ha colto, sentito, interpretato e fissato sensazioni ed atmosfere, di una realtà non percepita da altri, anche se presenti nello stesso luogo e nello stesso momento, consegnando così, a tutti, una chiave di lettura altrimenti inaccessibile.

Resta il limite dell’unico ed originale, essendo in contraddizione con lo strumento utilizzato per produrre l’opera.

Contraddizione ancora difficile da superare, vista la convinzione generale a legare strettamente unico, originale ed arte, come se il fatto di essere unico sia condizione assoluta per identificare un’opera d’arte.

Oggi le tecnologie a disposizione, possono consentire all’artista di produrre multipli unici, cioè un’opera realizzata in tanti esemplari assolutamente identici (cloni), quanti l’autore riesce a produrne, attribuendo in questa maniera, all’opera, l’identità che la renderà non unica ma originale, restituendogli la dignità di opera d’arte.

Tutto questo è possibile concependo e realizzando l’opera con gli strumenti tecnologici messi a disposizione da un computer: pennelli, matite, aerografi e altri strumenti elettronici e una tavolozza inesauribile di colori.

Una volta realizzata, è possibile concretizzarla tramite stampante e ripeterla, con o senza modifiche, in un numero di volte limitato solo dalla creatività de l’autore.

È come “l’uovo di Colombo”, è la cartina di tornasole del concetto che è alla base della mia filosofia di lavoro:

si mantengono intatte nelle mani e nella mente dell’autore tutte le prerogative sue proprie, permettendo agli amanti dell’arte di possedere un originale a costi contenuti o addirittura modesti.

La mente e la mano comandano il computer ed il computer comanda il mero esecutore: la stampante.

E’ mio convincimento che un’opera d’arte debba essere disponibile per il maggior numero possibile di persone.

Fermo restando le affermazioni precedentemente esposte, sull’originalità dell’opera, oggi, utilizzando gli strumenti tecnologici esistenti, ritengo sia dovere dell’artista di distribuire on-line un’opera specificatamente realizzata a tal fine, consentendo così a chiunque di riprodursi qualcosa di molto vicino ad un’opera originale.

Mi piace pensare, che, se lo strumento di cui io posso disporre, lo fosse stato, anche per i grandi del secolo appena trascorso, come Picasso, Mondrian, Kandinsky, per non parlare di Wasarely le cui opere sembrano opere fatte al computer, le loro opere vere, sarebbero presenti anche nelle case di “persone normali”, contribuendo così, alla crescita intellettuale e allo sviluppo di quella capacità critica della società civile fondamentale nella scelta di tutto quello che ci contorna.

Vorrei solo ricordare la risposta dei due padri di Internet Vint Cerf e Robert Kahn all’inviato di Repubblica Alessio Balbi:” … il discorso sulla proprietà intellettuale può aiutare a capire cosa intendo.

Pensate se chiunque potesse fare tutto ciò che vuole con quello che trova on-line, senza pensarci, perché un’infrastruttura di micro-pagamenti permette al proprietario dei diritti di essere pagato il giusto, immediatamente…”.

Come dire che annulliamo una volta per tutte l’idea di copyright che ha governato sin qui la parte mercantile delle arti.

Ci dedichiamo in massa alla lettura dei testi sacri, diventiamo tutti esperti di informatica e cerchiamo col lanternino i fruitori del nostro lavoro?

E da dove partiamo, dai ritratti e dalle foto?

E come ci regoliamo con la tanto decantata originalità, anche se in più esemplari?

Per non parlare delle problematiche legate a quella formula di consumismo esasperato che va sotto il nome di “pirateria”.

Intanto il copyright, legge di censura del governo inglese, non ha mai avuto niente a che fare con la tutela e protezione dei diritti degli autori.

Ci si voleva solo ed esclusivamente proteggere da una troppo larga diffusione di testi e letture sediziose, diffuse ampiamente grazie all’innovazione delle macchine da stampa.

Non per niente gli inglesi diedero vita addirittura ad una corporazione privata di censori (gli Stationers) per controllare i materiali in circolazione.

Ed infatti la storia del copyright ci spiega come esso sia nato per proteggere un modello di business e non gli interessi degli autori, e di come sia stato originato dalla censura.

E’ ormai qualche anno che la musica e il cinema stanno vivendo le problematiche riferite alle copie, ma sembra che il trend sia ormai quello che stabilisce che copiare non è un furto, e non è pirateria.

E’ ciò che abbiamo fatto per anni, fino all’invenzione del copyright, e possiamo farlo di nuovo, solo che non ci intralciamo con gli antiquati residui di un sistema di censura da sedicesimo secolo (Information feudalism – Piracy).

Opere dell’ingegno in senso lato, create da persone che vogliono fortemente renderle disponibili, e non già opere richieste da una ricerca di mercato dell’editore.

Per quanto riguarda poi il discorso sull’originalità, ho già accennato ad un sistema di certificazione e di catalogazione che governa tutta la mia produzione artistica.

Ogni opera, ed ogni clone, è firmato dall’autore in originale, un timbro di certificazione le contraddistingue tutte, come pure un numero seriale alfanumerico e il nome del proprietario dell’opera.

Non credo ci siano scappatoie di sorta, né possibili manipolazioni.

Ma voglio dire di più, considerando la proposizione del catalogo e delle opere on-line, se c’è chi si vuole contentare di una stampa non firmata, con un esemplare non originale né certificato, troverà a rotazione opere disponibili alla riproduzione, a titolo assolutamente gratuito.

Più interessante, e per quanto mi riguarda certamente più stimolante, è invece il discorso sui motivi di partenza delle mie opere, ritratti e foto, o opere famose come la Gioconda

Per le icone del ‘900 mi sembra difficile disporre dell’originale, per non parlare delle icone del passato.

Poi, con la disponibilità della fotografia, sarebbe anacronistico sottoporre a lunghe sedute di posa il soggetto da ritrarre; ma questo riguarda soltanto ritratti o altri oggetti specifici.

Nel caso di altri oggetti, figure umane, allegorie e per le opere che identifico come il suono diventa segno, la foto non esiste.

Per ultimo, ma determinante, i mezzi e gli strumenti cambiano e sarebbe masochistico continuare a pestare e mescolare le polveri per ottenere i colori e calcolare i rapporti dimensionali ad occhio.

Per quanto mi riguarda non riesco a vedermi in uno studio o all’aperto con basco e fiocco a comporre il mio quadro con aria assente in attesa dell’ispirazione.

Mi trovo a mio agio davanti ad un computer e passare da un azione quotidiana di lavoro a quella cosiddetta creativa, quando ne sento la spinta, avviene senza soluzione di continuità.

La Tecnica

In topografia le isoipse, o curve di livello, sono linee immaginarie che uniscono tutti i punti del terreno situati ad uguale livello o quota.

Nella rappresentazione pittorica di Mimmo Pirisi le isoipse sono linee immaginarie di uguale livello luminoso che uniscono tutti i punti del soggetto rappresentato definendo in tal modo forma e colore.

Identificare queste linee, definite nello spessore e nel colore, assegnare un valore cromatico alle aree che ne derivano mantenendo la riconoscibilità del soggetto, e’ la scommessa connessa ad ogni opera.

Con la complicità della scarsa definizione dell’occhio umano nel leggere i dettagli, ogni opera così concepita vive due realtà: una per la visione ravvicinata, l’altra per quella a distanza.

La realizzazione a colori separati e su più livelli (tipica dell’utilizzo del software Photoshop, Illustrator e Freehand) rende la serigrafia il metodo e la tecnica più adatti per la riproduzione di un’opera, ma precipita nell’inevitabile labirinto costi-copia, problematica che solo la produzione di multipli rende economicamente percorribile.

Ma multipli unici, originali.

La stampa digitale offre infatti la possibilità di sfuggire a questo stretto vincolo permettendo la riproduzione singola, personalizzata, multipla, consentendo così che molti, se non tutti, possano possedere un’opera originale.

Anche e soprattutto perché in caso di trattamento in atto, il vero, nel senso originale della parola, é virtuale e risiede nella mente dell’artista e la memoria del computer, consentendo in tal modo la vera originaria valutazione per ogni successiva proposta.